L’escursione del Monte Velino

Un viaggio soprattutto interiore. Anche in gruppo

Eravamo cinque, quattro studenti e Fabio, archeologo che anni dopo avrebbe goduto di ampia fama; l’auto era al completo.
Un paio d’ore di viaggio, il tempo di avvistare un daino che ci attraversava la strada ed eravamo alle falde del Velino, millecinquecento metri di dislivello da affrontare ed i suoi maestosi 2.487 metri d’altezza.

Il Monte Velino era lì, ci attendeva sornione.

Un’armata Brancaleone

Niente smartphone, niente app, giusto una fugace occhiata sul web circa il sentiero più interessante da percorrere, alle previsioni meteo e una cartina di quelle che per saperle ripiegare nel giusto verso occorre un corso serale.
Eravamo sinteticamente dei trentenni male in arnese, improvvisati e sedentari in quell’assolato agosto di tanti anni fa. Niente bastoni telescopici, niente calzature da trekking, niente di pesante addosso e niente esperienza.

Un’occhiata alle cime dinanzi e partimmo per la nostra escursione con l’entusiasmo dei dilettanti e un’incoscienza mascherata da coraggio che avrebbe fatto accapponare la pelle a Messner.
Il primo tratto fu agevole, in piano. La brezza mattutina era un gradito refrigerio e il baldanzoso desiderio di giungere all’apice rendeva tutto facile.

Una lama da filibustiere

Strada facendo notammo vari resti ossei (forse equini), furono motivo di leggera apprensione per i più. Fu l’occasione, per Maurizio, di cavare dall’Invicta e dare sfoggio ad un coltellaccio forse sottratto da qualche prozio a un filibustiere della Tortue.
Restammo qualche secondo tentennanti, quindi stabilimmo di proseguire fino alla base dello scosceso pendio.

Il sentiero che Fabio aveva eletto a più interessante, s’inerpicava sinuoso e stretto; in larghe spire ci spianava l’ascesa, ci prospettava un’agevole passeggiata. Sarebbe stata questione di un attimo.
Le sempre più rade rovetelle stavano per arrendersi alle conifere, oscillavano placide con i loro rami ombrosi; Fabio con il suo copricapo a falde larghe che ricordava tanto Indiana Jones di tanto in tanto adocchiava la carta e forniva indicazioni al resto dell’improvvida comitiva, dava l’impressione di essere l’unico ad avere un minimo di familiarità con la montagna da buon ex lupetto AGESCI. Basta non allontanarsi dal sentiero.

Eravamo partiti alla carlona. Personalmente indossavo jeans e normali scarpe da ginnastica.

Il vento improvviso

Il sentiero aveva serpeggiato il delicato e assolato declivio fra oriente e meridione a lungo, ma poi piegò sul versante adriatico. Accadde repentinamente, come quando si svolta su un’oscura traversa completamente diversa dall’arteria principale.

Un possente, inopportuno vento ci costrinse a proseguire chinati in avanti, con un passo lento e cauto lungo uno stretto passaggio. Transitavamo tagliando sulla cresta di un minaccioso crepaccio, si dischiudeva a precipizio per centinaia di metri.
Rovistai nella bisaccetta in tela leggera presa con i punti della IP, estrassi la busta di plastica contenente due rosette con la mortadella e la distesi sotto il maglione per stemperare il fastidio delle fredde folate.

Eravamo distanziatici, costretti a rimanere in fila e ad alzare la voce per farci sentire. Probabilmente ognuno stava valutando l’ipotesi di tornare indietro. L’avrei personalmente considerata un un fallimento, ma eravamo cinque, numero perfetto per metterla ai voti e fu quello che avvenne. In tre decidemmo di proseguire, gli altri preferirono rimanere in gruppo e si accodarono. In fondo siamo a metà strada, la vetta è alla stessa distanza dal punto di partenza e presto arriveremo al rifugio.

Il vento provò a farci cambiare parere. Con una scudisciata strappò la cartina di Fabio e il suo cappello a falde larghe venne trascinato nell’abisso. Ci guardammo perplessi, nessuno era disposto alla resa per primo, ognuno cercava segni di cedimento negli occhi altrui.
Nessuno osò ammettere che il rientro rappresentava la scelta più saggia, era diverso da una resa, il buonsenso doveva prevalere.

Il peggioramento delle condizioni

L’archeologo, Fabio, riprese il cammino verso la sommità.
Se nelle intenzioni iniziali la nostra doveva essere poco più di una passeggiata, ora stava divenendo una conquista.
Lo seguimmo titubanti. I due di minoranza, pur manifestando con sguardi reciprochi malavoglia, si allinearono nuovamente dinanzi alla prospettiva di rimanere isolati.

La grande cupola restava lì sorniona, le raffiche ulularono con maggiore impeto, il cielo nascondeva i raggi di sole che tanto ci avevano incoraggiato nella prima parte del tragitto.
La provenienza dei muggiti suggeriva di proseguire sul declivio alla nostra destra, un paio di metri più a valle rispetto al sentiero anziché sull’orlo della voragine che si apriva sulla sinistra. Così si stava più riparati, ma raramente era possibile optare per questa scelta.

Proseguivamo con cautela da ore quando un calo di zuccheri costrinse Maurizio a fare incetta di Gelee che il previdente Fabio estrasse da una sacca dello zaino.
Ne prendemmo anche noi altri al riparo di una rupe, accovacciati sulle rocce gelide. Non mangiamo i panini e teniamo duro o rischieremo un blocco digestivo.

Come ce la saremmo cavata? Lo racconterò molto presto, nella seconda parte del post.
A te è mai capitato di vivere situazioni come questa? Raccontacelo!

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