Il miraggio del rifugio sul Velino

Un’avventura, una sfida. Con se stessi

Quattordici anni fa un eterogeneo gruppo di persone (fra i quali c’ero anch’io) decide di scalare il Monte Velino, in Abruzzo. Nella prima parte dell’escursione sorgono le prime difficoltà dovute ad un freddo e forte vento. Come finirà?

Il Monte Velino, 2.487 metri d’altezza.

Una decisione difficile

Rimettemmo in piedi l’improvvisata e improvvida assemblea, nella parte di cartina sottratta a Fabio dal vento era segnata la posizione del rifugio e doveva trovarsi a una manciata di chilometri. Convenimmo, stavolta all’unanimità, sulla necessità di raggiungerlo anziché tornare sui nostri passi.
Ci trascinammo ancora sulla cresta esposta alle raffiche e avanzammo chini, lentamente, per evitare di seguire il destino della cartina.

Cambiamento di rotta

Il tempo passava, cominciava a diventare un’altra arma a favore del gigante di roccia e dell’agognato rifugio nemmeno l’ombra, in compenso il sentiero si biforcava e non sarebbe stata l’ultima occasione.
ASe non volevamo emulare l’Asino di Buritano urgeva scegliere una rotta. Non ricordo quali argomentazioni prevalsero, prendemmo la decisione suggerita dall’ormai ispirato leader de facto, Fabio.
La democratica assemblea poté evitare la solita patetica riunione. Occorreva avanzare a braccio,senza il quarto di cartina mancante ci affidavamo al suo buon senso. E alla nostra buona stella.

L’incedere era stanco e sempre più flemmatico, la stella principale quasi volgeva al tramonto, la costruzione, il nostro tacito nuovo traguardo, per quanto meno ambizioso, era suggerito dalla subentrata esigenza primaria di tornare sani e salvi alle nostre abitazioni.
Se ne stava placido da qualche parte e doveva essere scorto prima che l’oscurità avesse il sopravvento.

Eravamo soli seppure insieme. Non ci saremmo più ritrovati tutti e cinque.

La pietra, la fantasia e la tensione

Con la sera sarebbe diventato tutto più difficile, mettere in fallo un piede era più di una sordida ipotesi, la temperatura sarebbe ulteriormente calata, a braccetto con il buio e gli ululati del vento sembravano mescolarsi a quelli di un lupo che doveva esistere solo nella mia fantasia.
Immaginavo la farsa di Maurizio col suo coltellaccio mentre in una comica imitazione di Sandokan tentava l’eroica difesa di noi altri dalle stesse fiere capaci di sbranare gli animali dei quali rimanevano i resti a valle. Evitai di esternare un personale pessimismo che cominciava a rivaleggiare con quello cosmico di leopardiana memoria e forse stavo semplicemente imitando i miei compagni.
Il morale era alle stalle quando propendemmo per una breve sosta. Sedemmo appena qualche minuto, indugiare era un lusso eccessivo, era opportuna giusto una sosta per recuperare qualche energia.

Seduto dietro una roccia feci notare a Maurizio una lastra di pietra vagamente squadrata sdraiata a terra. Sembra una… lapide.
Il suo sguardo aveva perso baldanza da qualche ora, ma in quel momento si fece addirittura granitico, bieco. Tenni per me il malcelato cattivo umore che mi trasmise, sintesi di un florilegio di sentimenti che ci accomunavano eppure ci disgregavano.
Le corde erano tese, sollecitarne una significava far scoccare il primo dardo.

Solo emergenza

Il tragitto prevedeva ancora una leggera salita, sembrava un cattivo segno. Sul display del Nokia due parole che echeggiavano nella mente, solo emergenza.
L’astro principale tramontava definitivamente, presto avrebbe lasciato alle altre stelle la volta celeste.
I colori ad occidente erano scemati senza suscitare sentimenti di ammirazione, per una volta aveva rappresentato un inopinabile malaugurato evento.
Solo emergenza. Solo emergenza.

La nostra era un’emergenza?
Nessuno ardiva dirlo, ma forse le mie erano valutazioni quelle degli altri, Fabio teneva coeso un eterogeneo gruppo di persone che forse mai più sarebbe stato ricreato, ognuno poi perso a rincorrere i suoi guai.
La corrente si faceva più fredda, neanche uno parlava e seppure insieme eravamo soli con le nostre angosce. Maurizio, poco convinto, cercava di far funzionare il telefonino. Fermarsi ancora avrebbe significato la fine.

Due sassolini slittarono dalla suola di una scarpetta della Puma, finirono nel burrone coinvolgendo altre ciottoli nel loro franare centinaia di metri più a valle. Un brivido percorse la schiena.
Solo emergenza. Solo emergenza.

Il rifugio

Fabio di tanto in tanto si fermava, dietro lo imitavamo. Ma lui doveva tenere la mente sgombra da pensieri perché doveva fare valutazioni, si stava prendendo la responsabilità nella scelta delle direzioni e certamente sperava di non sbagliare neppure una volta in quella pericolosa roulette nella quale ci aveva trascinato organizzando l’escursione.
Nemmeno uno desiderava essere lì, ma l’archeologo di più, tutti eravamo consapevoli del pericolo che correvamo, ma lui di più. Tutti speravamo di essere costretti a inventare una scusa, al rientro, per giustificare il ritardo, ma l’archeologo di più.

D’un tratto, nella semioscurità, come quando dei naviganti avvistano la terraferma, senza che si capisca bene chi l’abbia fatto per primo, il declivio alla nostra destra si distese più morbido.
E sul fondo si stagliava l’ombra di quello che doveva essere il rifugio!

Al calare delle ombre ammirammo un superbo cervo nel bosco accanto.

Un riparo temporaneo

Il locale sembrava abbandonato ma in buono stato. Trovammo qualche confezione di tonno e poco altro, ma fummo al riparo dal vento.
Mangiammo appena mezzo panino e ripartimmo in fretta, dei cartelli ci incoraggiavano a scendere a valle attraverso un ampio e comodo viale attraversato probabilmente da veicoli adatti alla montagna.

Prima di inoltrarci verso il bosco a valle voltai un’ultima volta lo sguardo dalla parte opposta, la maestà del Velino che ci osservava sornione.
Eravamo andati a cercarlo, l’avevamo sfidato e senza neppure muoversi ci aveva mostrato i suoi limiti.
Percorremmo rapidamente il declivio, un cervo si infilava nel bosco. Il buio aveva avvolto ogni cosa quando raggiungemmo l’auto.

C’era un uomo presso il parcheggio, gli raccontammo la nostra storia e lui ci raccontò la sua.
Sembrava verissima malgrado oggi, quattordici anni dopo, comodamente seduto a una scrivania, mi faccia sorridere l’idea che investimmo qualche minuto ad ascoltarlo.

La storia: il tributo alla Montagna

Si può sfidare, ma la Montagna esige un suo tributo. Erano in gruppo, furono colti da una bufera di neve. Un uomo, rimasto ultimo della fila, non riusciva a tenere il passo degli altri e finì col rimanere sempre più indietro senza che qualcuno se ne accorgesse.
Ma quando giunsero finalmente a valle gli altri si accorsero che non aveva fatto ritorno. Fecero delle ricerche, coinvolsero anche altre persone e fu ritrovato. Il suo corpo giaceva accanto a una strana lastra di pietra dalla forma squadrata, sdraiata a terra, somigliante a una lapide. Nel sottile strato di neve che si stava formando nonostante il riparo di una rupe, qualche fiammifero consumato.
Quel giorno una vita era stato il tributo da versare alla Montagna.

Qualcosa ancora mi legava al monte Velino, negli anni successivi rimuginai a lungo su quanto era accaduto. Forse un giorno sarei tornato… Chissà.

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